domenica 10 febbraio 2008

Numero di Febbraio.

In questo numero:

Univeristà, riprendiamoci spazi e didattica.


Si faccia luce sulla morte di Aldo Scardella.


Diciamo un secco NO ai culti del consumismo.


Rifiuti, violenza ed ipocrisia a Cagliari.


Basi Militari? No Grazie!


La sinistra unita in Consiglio Regionale.


Presentazione romanzo "la terra dell'odio"

Università: riprendiamoci spazi e didattica!


Quando dal paese giunsi all’Università entrai in contatto con una situazione ben diversa da quella attuale. Gli studenti collaboravano e discutevano alle assemblee, alle lezioni ci si andava, ma non c’era l’inquietudine d’oggi determinate dalla disoccupazione, dalla precarietà e da questa crisi economica che, in Sardegna come altrove, sta assumendo proporzioni preoccupanti. Tutti giungevano dalle loro terre d’origine con giuste aspettative, con speranza, oltre che con legittima curiosità: l’Università era davvero il trampolino di lancio verso il futuro. Nelle bacheche delle facoltà echeggiavano agguerriti volantini delle associazioni e dei collettivi studenteschi, delle più diverse e disparate sensibilità…



Eravamo sul finire degli anni novanta, quindi sono trascorsi appena dieci anni!

Eppure molto è cambiato, e forse perduto, per sempre. Gli studenti, salvo qualche rara eccezione, sono apatici, disinteressati all’attività politica, e soprattutto non s’interessano alla difesa dei loro diritti. Molti vanno a lezione coi loro libri sottobraccio, visibilmente preoccupati per il ritardo alla lezione di diritto privato, o di meccanica applicata a non so che cosa.
“Ti posso dare questo volantino?” Gli dici. Loro ti guardano come se stessero ripiombando sulla terra, persi in chissà quale congettura, e se va bene ti prendono il volantino per farti un piacere. Il 40% arriva a leggere le prime tre righe, ma non appena capisce di cosa si tratta smette di leggerlo. Un altro 40% non lo legge nemmeno, lo butta direttamente. Nel restante 20% potrai trovare la persona che decide di venire alla riunione, oppure al sit - in dinanzi al rettorato, etc… (si, potrai trovare, perché il 20% è solo una base immaginaria, ed ottimistica).

Considerando l’atteggiamento di questi studenti, la situazione sembrerebbe abbastanza rosea. Verrebbe da pensare, certamente a torto, che le lotte del passato hanno prodotto i loro effetti, e lo studente vive in una discreta condizione per cui non ha più nulla da chiedere. Peccato che non sia affatto così, tutt’altro. Continuano ad aumentare le tasse universitarie, l’amministrazione è una macchina infernale, i baroni dominano incontrastati dall’alto delle loro cattedre, il Magnifico Rettore è ormai una figura quasi metafisica che può permettersi qualsiasi cosa, i programmi sono vilmente superati, tutto il sistema dell’istruzione s’è ormai trasformato a fabbrica di produzione d’automi, da inserire nel vasto mercato del consumismo globalizzato. Altro che, gli studenti hanno poco da ridere. Perché, allora, si comportano in questo modo?

In primo luogo, ritengo che tra gli studenti stia avvenendo ciò che è avvenuto tra i lavoratori. Gli universitari hanno perso lo stimolo alla rivendicazione, anche in relazione ad una inquietudine diffusa delle loro condizioni di vita. Qualsiasi studente si rende oramai conto che il suo inserimento nel mercato del lavoro sarà difficoltoso, per questo cerca d’accelerare i tempi della propria laurea anche a condizione di non protestare più per il peggioramento della situazione generale, pensando che se si laureerà prima, sarà magari avvantaggiato quando arriverà il momento della sua assunzione.
Nel mondo della precarietà questa è la norma: il precario non tende più a manifestare il malcontento per la condizione generale, perché preoccupato dalla stabilità del “proprio” posto di lavoro. In poche parole, nessuno cerca più i benefici per la specifica categoria d’appartenenza, perché ognuno cerca il vantaggio unicamente, e solamente, per se stesso. Il disagio e la preoccupazione che sono insiti nella società, hanno definito un allentamento dei vincoli di solidarietà tra le persone, che siano studenti oppure lavoratori. Tuttavia, l’allentamento del vincolo non è causato solo dalle tensioni sociali: il vincolo di solidarietà è spezzato anche dalla competitività diffusa, dai miti del successo e della ricchezza, che i mezzi d’informazione propongono senza soluzione di continuità. Su questo, almeno per il momento, non intendo soffermarmi.

Le recenti riforme universitarie hanno accentuato il problema. Il sistema delle lezioni obbligatorie, sommate alle ore di studio, hanno determinato una difficoltà tangibile, per cui ogni studente è quasi impossibilitato ad interessarsi di qualsiasi cosa che non sia l’oggetto del proprio studio. Chi ha voluto l’aumento delle tasse per gli studenti fuoricorso, ha voluto mettere un ulteriore freno a qualsiasi velleità politica (che può essere anche artistica, o di qualsiasi altro tipo) dello studente. La vita di un universitario è diventata una corsa ad ostacoli verso il prossimo esame, riflettendo sul fatto che ormai il fuoricorso è trattato quasi come una bestia velenosa. Anche il questo caso, il paragone col lavoratore precario è obbligatorio. Entrambi sono costretti ad una paradossale corsa ad ostacoli: il primo per restare “in corso”, il secondo per avere il proprio contratto rinnovato. Va da sé che sarà esclusa ogni attività extrascolastica, soprattutto nel caso dei figli delle famiglie meno abbienti, che non potranno permettersi nulla che vada al di là di ciò che devono.

Fatte queste considerazioni, ritengo che sia diritto dello studente riappropriarsi del proprio tempo, affinché possa ritagliarsi spazi di socialità che in questi ultimi anni ha perso. Per spazi di socialità intendo molteplici attività, che comunque devono restare nella discrezionale scelta dello studente. Un universitario (come un lavoratore) ha diritto ad una vita realmente sociale, che vada al di là da un impegno didattico sempre incalzante e che mina seriamente le facoltà d’apprendimento…
Oltre alle attività extradidattiche, tuttavia, dovrebbero essere cambiati alla radice anche i metodi d’insegnamento. Un esame non dovrebbe avere come base il trinomio professore – libro – studente. Per una maggiore comprensione della materia, dovrebbero essere attivati dei percorsi formativi che vadano al di là delle semplici e preistoriche lezioni. Gli studenti dovrebbero essere coinvolti in dibattiti, proiezioni, oppure diventare parte attiva della stessa didattica, attraverso contributi ed approfondimenti. Per carità, al bando le visite alla Corte dei Conti, o roba simile: gli universitari dovrebbero rifiutarsi con tutti i mezzi di sottoporsi a simili ed umilianti percorsi!
Oltre a ciò, è urgente che all’interno dell’Università nascano nuovi collettivi studenteschi, o nuove associazioni, che ridiano nuova linfa ad un ambiente che pare asfittico. I collettivi (o come li si vuole chiamare) devono portare nuovamente la politica all’interno delle Università: essi devono essere capaci di proporre ed attivarsi non soltanto quando ci sono le elezioni, oppure quando esplodono i grossi problemi, ma dovrebbero essere in grado d’aggregare gli studenti in tutti i periodi dell’anno, per strapparli all’alienante sistema delle lezioni e del superamento degli esami. Obbiettivo fondamentale di queste aggregazioni deve essere quello di riformare il sentimento di solidarietà tra gli studenti, con l’obbiettivo della rivendicazione dei propri diritti.

Per fare questo bisogna individuare i problemi degli universitari, precisare le soluzioni, e unirli con le giuste motivazioni, con l’ambizione di raggiungere traguardi comuni. Per quanto sia importante il lavoro dei collettivi presenti, dobbiamo essere capaci di costituire altri collettivi “di sinistra” negli altri atenei, con l’obbiettivo di riprenderci anche i giusti spazi di socialità. Gli spazi sociali saranno indispensabili per costruire dei laboratori di politica universitaria, per formare dei gruppi di lavoro sulla didattica, per discutere la stessa didattica. Le aule occupate potrebbero diventare, per dirla in breve, dei laboratori sperimentali in cui si sviluppano politiche e didattiche alternative rispetto alle antiquate metodiche, che in questo momento prevalgono nei programmi universitari.

Vincenzo M. D’Ascanio

Si faccia luce sulla morte di Aldo Scardella!


Quest’Estate la Corte di Cassazione ha stabilito che devono proseguire le indagini sulla morte di Aldo Scardella, trovato morto nella sua cella di Buoncammino il 2 Luglio di 21 anni fa. Scardella, studente universitario, fu accusato ingiustamente d’aver partecipato a una rapina avvenuta nel 1985, che costò la vita al proprietario dell’esercizio commerciale. I veri responsabili dell’accaduto furono arrestati nel 1996, e il nome di Aldo Scardella fu definitivamente riabilitato.
Nonostante ciò, quella riabilitazione non potrà cancellare ciò che avvenne, e soprattutto non servirà a riportare in vita Aldo, impiccatosi nella sua misera cella di Buoncammino. Purtroppo i casi di suicidio in questo carcere sono numerosi, anche perché le strutture dello stesso non sono assolutamente adeguate. Buoncammino è un carcere vecchio, simbolo della volontà di uno Stato che alle rieducazione predilige di gran lunga la repressione, accompagnata dalla violazione costante dei diritti.
Si, perché la nostra Costituzione parla chiaro, sottolineando che la pena deve tendere alla rieducazione del condannato. Il carcere è una struttura che allontana gli individui dalla società, li aliena, e provoca delle cicatrici che difficilmente potranno essere rimarginate: chi ha vissuto l’esperienza carceraria sulla propria pelle conosce bene le difficoltà del reinserimento. Inoltre, alla pena detentiva si aggiungono altre pene assolutamente illegittime, causate dalle privazioni materiali e morali a cui sono costretti i condannati. In condizioni di questo tipo, la soluzione estrema del suicidio può drammaticamente trasformarsi nell’unica e definitiva scappatoia a un tunnel di cui non si vede la luce.
Ciò che risulta essere ancora più aberrante, è che le carceri italiane sono delle carceri profondamente classiste. Lo Stato punisce l’anello più debole della catena sociale, poiché nella maggior parte dei casi le carceri sono popolate da tossicodipendenti, prostitute, ladri di galline e malati d’AIDS. Lo strumento del carcere funziona unicamente come deterrente, e chi vi dovrà scontare un errore ne uscirà traumatizzato, lacerato, solo. Quindi il carcere come difesa d’interessi puramente economici, carcere come colpa, carcere inteso come tortura per chi ha dovuto convivere col disagio materiale, morale e talvolta psichico.
La sentenza della Cassazione deve portarci a riflettere non soltanto sul caso di Aldo Scardella, ma sull’intero sistema carcerario italiano. Se continueranno a esistere carceri come quello di Buoncammino, se le persone saranno costrette a restare in cella attendendo il proprio processo, se non si studieranno delle nuove misure che siano alternative al carcere, allora lo Stato dovrà ammettere il proprio fallimento. Perché oggi pensare che il carcere sia uno strumento di rieducazione non soltanto è una menzogna, ma è una vera e propria disonestà intellettuale al servizio dell’inciviltà.

C. V.

Diciamo un secco NO ai culti del consumismo


Considerando la società in cui viviamo, spesso poniamo ai margini delle problematiche che non sembrano riguardarci più, o forse non appartenerci. Per questa ragione, ma non solo, sposterei l’attenzione sulla questione del sistema culturale. Il sistema culturale è un qualcosa d’ampio e complesso. Del sistema culturale fanno parte i mezzi di comunicazione, i istituti educativi e religiosi, le associazioni, insomma, è una categoria molto ampia. Perché lo considero un problema? Semplice. Penso che la cultura, i valori, non siano più prodotti dalla società nel suo insieme, ma siano piuttosto proposti da una ristretto gruppo di persone, che finalizzano ed indirizzano i comportamenti umani per soddisfare principalmente le logiche del mercato. Insomma, questi valori sono funzionali al mantenimento e allo sviluppo dell’attuale sistema produttivo.

Nella produzione di valori, come detto, dobbiamo comprendere anche gli istituti religiosi, ma il discorso in questo caso è differente. I valori che provengono dalla religione, condivisibili o meno, sono il frutto di una produzione secolare, che si sono anche evoluti nel tempo anche seguendo pulsazioni sociali, ed irrazionali. I valori concepiti dal mercato non sono stati prodotti e adattati alla società, ma sono stai imposti alla società stessa attraverso i formidabili mezzi di comunicazione, che oggi hanno un peso incredibile.
Quali sono le fonti produttive di questa cultura? Naturalmente, eviterei una ragionamento comune che ho talvolta udito nei Circoli culturali, secondo cui questi valori sarebbero prodotti niente poco di meno che dalle fantomatiche multinazionali, riunite in consessi di kafkiana memoria. Il positivismo, o l’utilitarismo, hanno trovato il loro sviluppo in anni lontani dai nostri, tuttavia, questi stessi movimenti culturali sono oggi portati alla loro estremizzazione dal capitalismo, che ha introdotto nuovi costumi per giustificare e rendere più forte il proprio sistema di pensiero. Le grandi multinazionali hanno sviluppato e approfondito tecniche di comunicazione che hanno come fine quello della vendita del proprio prodotto, tecniche che si legano non soltanto alla sociologia, ma alla stessa psicologia.

Oggi il marketing ha avuto uno sviluppo notevole, e come ben sappiamo le potenti aziende della globalizzazione sono più disposte a investire sul marchio del proprio prodotto, piuttosto che sul prodotto stesso. L’elemento patologico è che il marketing, servendosi della pubblicità e sfruttando sapientemente i mezzi di comunicazione, riesce a creare degli particolari modelli di vita, a cui la società si deve adeguare. In particolare, i giovani sono continuamente sollecitati da impulsi comunicativi che bene o male li influenzano, in tutti gli aspetti della loro vita. Per fare un esempio, pensiamo a una delle diverse orribili pubblicità che compaiono con regolarità sul piccolo schermo. I prodotti reclamizzati sono molteplici, ma tutti hanno un unico denominatore: la proposizione del modello dell’uomo vincente, la proposizione del culto della competizione.

Ragioniamo sulla pubblicità degli indumenti sportivi (Nike, Adidas, etc…). Oggi i personaggi impiegati sono sempre dei campioni straordinari dello sport, oppure, quando non sono dei campioni, sono utilizzati uomini e donne dal fisico eccezionalmente possente (e dallo sguardo fastidiosamente deciso). Io sono sconcertato dalla pubblicità della Barilla, dove il manager partito per un Paese lontano è atteso con trepidazione dalla mogliettina, ovviamente in una casa lussuosissima. Per non parlare della pubblicità delle automobili, dei computer, dei televisori e degli stereo. La pubblicità ha estremizzato così tanto le situazioni, che anche farsi la barba è diventa un’impresa, azione compiuta da uomini profondamente decisi e naturalmente belli e vincenti (sul culto dell’esteriorità, poi, si potrebbe discutere per ore…)

Sul banco dei condannati, tuttavia, non posso mettere soltanto la pubblicità (che, comunque, anche se in maniera discutibile assolve alla sua funzione). L’arte stessa sta scadendo per appoggiare i valori di questo sistema di produzione. Il cinema, strumento fondamentale di cultura e comunicazione, si sta appropriando di questi primitivi meccanismi, e il culto dell’uomo vincente (e quindi della competitività), sta assumendo proporzioni sempre più angoscianti. In ogni campo espressivo o artistico il modello sta dilagando, anche se ovviamente esistono delle fortunate eccezioni (i “veri” artisti non cedono ai compromessi). I personaggi (anche dei telefilm o negli odiosi teleromanzi) sono sempre i medesimi: ricchi, forti, qualche volta annoiati, pronti a tutto etc… La sofferenza umana è quasi scomparsa, dei veri problemi non si da rappresentazione, non sono analizzati, ogni cosa è raffigurata da un’assurda patina di falsità. La realtà non è considerata, non per cercare un sacrosanto rifugio nella fantasia, ma piuttosto per rifilarci una realtà falsa e inesistente, e questo, a mio avviso, non avviene per caso…

Il tutto farebbe anche ridere, peccato però che non tutti hanno la voglia (o il tempo) di mettere in funzione le proprie capacità di ragionamento. I modelli proposti sono ormai considerati come acquisiti ed inviolabili, e i giovani sono lo strato di popolazione più soggetta a questa somministrazione di competitività. Parlando del nostro futuro con i miei coetanei, noto un dato che mi fa pensare: tutti hanno una paura folle di non poter possedere determinate “cose”, e alcuni hanno come principale desiderio quello di comprarsi una bellissima macchina, avere una straordinaria casa, dotarsi di un fisico eccellente, munirsi di strumenti tecnologici, neanche lavorassero per i servizi segreti. Ai giovani è stato detto che essi non devono collaborare, perché il realtà devono prevaricare. Ai giovani è detto che devono essere dei vincenti, ed essere vincenti significa possedere la materia. Il vincente non è il coraggioso, l’altruista o colui pronto a sacrificarsi per non ripudiare i propri ideali. Il vincente è ben altro, ha sempre i capelli a posto e il Rolex, ha sempre la macchina più bella, così tutto ciò che ci accade intorno e solo lo sfondo della nostra esistenza, proprio come in un teleromanzo.
Questo stato di cose, ovviamente, produce sofferenza. Perché chi non riesce, o non vuole, essere un vincente (secondo il modello tratteggiato dalla cultura dominante), si sentirà diverso, e non sempre nel sentirsi diversi si sta bene. La povertà, prima considerata un valore, oggi è una vergogna, e il giovane sotto gli “standards” sta male, anche se ha il necessario, e talvolta anche di più. La competitività strozza chi non ha voglia di competere, non tanto perché vile, ma piuttosto perché umano, e non ha intenzione di sprecare la propria vita trasformandosi nel lupo dei suoi simili.

Naturalmente non tutti i giovani si fanno infarcire da queste idiozie, altrimenti faremo tutti bene a pensare seriamente al suicidio. Ci sono giovani che conoscono la verità, ma questi stessi giovani non devono cullarsi nel compiacimento della propria intelligenza, perché devono essere capaci di riportare a galla la cultura, la vera cultura. Esistono anche degli importanti pezzi di società stanchi di questo squallore mass mediatico, che tuttavia tendono a stare ai margini, ad estraniarsi dal contesto vissuto per vivere nel pensiero del tutto è ormai perduto. Questo è un errore, perché e un dovere proporre la propria visione delle cose, e lottare per la società che si vorrebbe. Tuttavia, non si può pensare che questo resti un compito soltanto dei giovani. La politica ha un ruolo importante nel fronteggiare questo regresso culturale. Devono essere finanziati i luoghi di cultura, la produzione dell’arte, il godimento dell’arte. E’ compito fondamentale della politica finanziare la stessa cultura, facendo i dovuti distinguo, e contrastare l’imbarbarimento che si sta sviluppando e radicando con velocità esponenziale.

Marco Serra.

Rifiuti, violenza e ipocrisia a Cagliari


La polemica del centro destra sardo di questi giorni sull'arrivo dei rifiuti campani in Sardegna, avrebbe del grottesco, del ridicolo, dell'ipocritamente pretestuoso, se non avessi assistito a quello che, anche dal Bastione di Castello ( la rocca che domina la città), si riusciva a vedere degli scontri e della follia ( spontanea?) dei cosiddetti ultrà, di fronte alla villa di Soru, vicino alla Basilica di Bonaria.
Quello che ho visto non ha nulla a che vedere con la polemica politica, quello che ho visto è squadrismo, violenza smisurata, rispetto al problema che si contestava.
Parto da alcune considerazioni quantitative partendo dal rapporto sui rifiuti urbani 2006 della regione Sardegna: ogni anno noi Sardi produciamo, nelle nostre case, circa 850000 tonnellate di rifiuti ( chiamati solidi urbani )
Parallelamente ogni anno vengono prodotti in Sardegna, in maggior parte dal tipo particolare di grandi industrie che abbiamo, circa 3 milioni e 300 mila tonnellate di rifiuti speciali all'anno.

Questo non da oggi ma da almeno 30 anni.

Da quando è stata eletta la maggioranza di centro sinistra che governa la Regione ( nel 2004 ) si è passati in soli due anni dallo 0% al 20% di raccolta differenziata (nel 2007 si è arrivati al 30%), grazie ad una politica di premialità /multe, voluta dall'ex assessore all'ambiente Tonino Dessì, in numeri, nel 2006 questa quantità ammontava a 170000 tonnellate
Nel 2005 si svolse un referendum per impedire l'importazione di alcuni particolari tipi di rifiuti ( fumi di acciaieria ) utilizzati come materia prima da un industria metallurgica ( si parla di oltre 200000 t/a). In quell'occasione il centro destra si espresse per bocciare quel referendum ( come quasi tutte le forze politiche esclusi gli indipendentisti ), cioè per importare quel tipo di rifiuti ( molto più pericoloso dei rifiuti urbani).

La stessa Sardegna, inoltre, esporta circa 600000 t/a di rifiuti speciali verso altre regioni.
A questo si aggiunga che l'impianto di Macchiareddu ( vicino a Cagliari) che ha ricevuto le prime 500 tonnellate di rifiuti ne tratta ogni anno circa 200000 tonnellate.
Fatto questo quadro della situazione si capisce come la quantità di 6000 tonnellate di rifiuti urbani che arriverebbe dalla Campania sarebbe veramente una quantità esigua per gridare all'emergenza ambientale, la Sardegna se le può permettere.
La cosa che sorprende, che indigna e preoccupa è che a strumentalizzare la protesta, o meglio ad aizzare la protesta, siano personaggi politici di centro destra di primo piano come l'ex Preidente della Regione Mauro Pili di Forza Italia e il Sindaco di Cagliari Emilio Floris, sempre di Forza Italia.

Su quest'ultimo mi voglio soffermare.

Al di là del fatto ridicolo di aver mandato il vicesindaco, con tanto di fascia tricolore, e il capo dei vigili a notificare agli addetti del Porto Canale, dove è arrivata la nave dei rifiuti, una delibera del Comune che vietava l'arrivo di rifiuti extra regionali nel suolo comunale, quando il molo di arrivo e l'inceneritore sono sul territorio di un altro comune, ciò che stupisce è la malafede.
A questo riguardo faccio altre due considerazioni, la prima è questa: il Comune di Cagliari si è fatto capofila della protesta contro l'arrivo dei rifiuti Campani, lo stesso Sindaco Floris ha annunciato di voler andare a buttare un sacco d'immondezza a casa di Soru; ebbene lo stesso comune, come i cagliaritani ben sanno, non ha, da anni, nessuna volontà politica di far partire una seria raccolta differenziata, tanto che su 100000 t/anno di rifiuti urbani prodotti, solo 9000 t ( il 9% ) provengono dalla raccolta differenziata, con conseguenti multe di milioni di euro, che pagheranno i cagliaritani.

La seconda considerazione riguarda l'inquinamento atmosferico cittadino. In assenza di una politica della mobilità che porti alla riduzione delle auto private, le centraline di rilevamento della qualità dell'aria cittadina, rilevano valori d'inquinamento superiori a quelli rilevati dalle centraline poste in prossimità dell'inceneritore di Macchiareddu, basta controllare i dati pubblicati dai siti del comune di Cagliari e della Provincia:

http://www.comune.cagliari.it/portale/it/qualit_dellaria.wp e

http://www.provincia.cagliari.it/content/portal/media-type/html/user/anon/page/default.psml/js_pane/P103357afabd-10036
( cliccare Macchiareddu )

Mi sembra perciò che il clima da tragedia e da guerra che si sta creando in questi giorni sia assolutamente pretestuoso e ipocrita da parte del centro destra. Oltre che molto pericoloso, penso che troppi politici stiano facendo gli apprendisti stregoni alzando i livelli dello scontro su piani non più civili.
Per quanto riguarda Il governatore Soru, a parte la solidarietà personale per quello che è successo ieri sera e l'approvazione per il gesto di accettazione dei rifiuti Campani ( ampiamente sostenibile e remunerata, dato che per ogni t ci pagheranno 120 Euro), sarebbe opportuna un'operazione trasparenza, cioè informare i cittadini dell'esatta quantità di rifiuti che arriveranno.

Cristiano Montis

Basi militari? No Grazie!



Sul territorio le basi militari producono degli effetti fortemente negativi che si manifestano da diversi punti di vista.
Da quando è presente la base militare, la popolazione di Teulada si è praticamente dimezzata, mentre la popolazione di Pula (a pochi chilometri di distanza) è raddoppiata. In due paesi vicini, entrambi a poca distanza dalle spiagge, l’andamento demografico ha avuto degli effetti diametralmente opposti. A Teulada tante persone sono invece dovute emigrare, perché l’economia locale era in ginocchio...

In Sardegna l’economia si muove spesso partendo proprio dalle risorse territoriali: agricoltura, pastorizia e turismo hanno proprio nel territorio il loro presupposto fondamentale. Se a una comunità gli si toglie la disponibilità del territorio, possiamo facilmente immaginare che sarà fortemente penalizzata. Nel caso di Teulada ciò è evidente, soprattutto considerando che proprio Teulada potrebbe contare su un pregevole territorio, adatto all’agricoltura, all’allevamento ma soprattutto al turismo.
Infatti, Teulada può contare su delle risorse ambientali non indifferenti. Dalla testimonianza di alcuni amministratori, anche del passato, è emerso che molti imprenditori erano interessati ad investire sulla zona, ma non appena erano accompagnati per visitare la costa, incominciavano a sentirsi i tremendi rumori delle esercitazioni, e ovviamente gli investitori non potevano puntare su un’area che subisce un simile handicap.

Qualcuno sostiene che le basi militari hanno tutelato la bellezza della costa, ma è evidente il danno all’economia della comunità. A Teulada, come in tutti i luoghi occupati da servitù militari, si potrebbe fare come il Presidente Soru intende fare a La Maddalena. Come evidenziano le cronache del Marzo 2007, tutto l’Arsenale di La Maddalena e la parte gestita dall’Agenzia Industrie e Difesa, insieme all’area operativa, passerà in capo alla Regione Sardegna. Questo permetterà di realizzare il Polo Industriale voluto dal Comune e dalla Regione, che permetterà d’alzare i livelli occupazionali, e dunque creare economia stabile nella zona (proprio l’ultima Domenica di Marzo, gli ex lavoratori della base hanno manifestato la loro preoccupazione in una manifestazione a Cagliari). Dal punto di vista economico la dismissione delle basi militari dovrebbe avere proprio questo effetto: creare occupazione (ovviamente sostenibile) nel territorio, anche perché spesso le comunità locali hanno il timore di perdere quel minimo d’indotto procurato in vario modo dalle stesse basi NATO. Se la proposta di dismissione è accompagnata anche da una proposta occupazionale, le popolazioni locali saranno certamente disposte a dare il proprio assenso alla dismissione.

Su quest’argomento, proprio gli amministratori di Arbus, nel cui territorio è situata la base di Capo Frasca, hanno evidenziato come la presenza della servitù ha pesantemente condizionato il loro territorio. Il poligono NATO s’estende dalla penisola a nord del territorio comunale di Arbus, da Capo Frasca sino alla frazione di Sant’Antonio di Santadi. La grandezza del poligono arriva all’ammontare di 1500 ettari, con un ulteriore sviluppo costiero di 25 chilometri . L’area ricade proprio all’interno del Sito d’interesse comunitario “Stagno Corru e s’Ittiri”, ed è soggetta ai vincoli del nuovo piano paesaggistico regionale per la presenza di rilevanti edificazioni d’estrema importanza culturale. Queste costruzioni risalirebbero al periodo preistorico e pre – nuragico quali tombe dei giganti, nuraghi ma non solo, perché sono state segnalate anche delle ville romane. Anche nel caso di Capo Frasca, dunque, possiamo facilmente immaginare i danni ad un territorio a sicura vocazione turistica.

Inoltre, le basi militari procurano dei seri danni alle popolazioni locali, oltre che sugli stessi militari impiegati nelle esercitazioni. Come ha spiegato Lidia Menapace, senatrice PRC, presidente della Commissione sull’uranio impoverito, le patologie anomale tra i militari dei contingenti all’estero, o impiegati in poligoni di tiro, o in siti di stoccaggio delle munizioni, sono ormai una certezza. Proprio la Commissione presieduta dalla Menapace, concentrerà il proprio studio sulle possibili cause delle patologie, estendendo la propria analisi non soltanto al personale interessato, ma anche alle popolazioni civili che, in Italia, vivono nelle zone prossime a basi militari (come i cittadini di Teulada, per fare un esempio). Se fossero individuate con certezza delle patologie, la Commissione vorrebbe proporre la revisione dei “segreti” trattati internazionali (approvati dal Governo, e mai sottoposti all’esame del Parlamento), che hanno portato alla realizzazione di queste stesse basi.

Proprio sul tema delle patologie, è interessante analizzare questo dato. In base ai risultati ottenuti dagli studi effettuati dalla Commissione Mandelli, (istituita negli anni 90’, quando cominciavano ad emergere gli effetti della Sindrome del Golfo tra i soldati reduci dalle missioni nei Balcani), emerse che determinate patologie, tra i soldati, erano quattro volte superiori alla media! Questo dato può essere una testimonianza di come determinati armamenti possano provocare seri danni sugli individui, ledendone seriamente la salute. Ma ciò non basta. In base alla contabilità delle morti (portata avanti da associazioni come l’Osservatorio Militare del maresciallo Leggiero, oppure l’Anavafaf di Falco Accade (ex presidente della Commissione Difesa di Montecitorio), registra oggi 45 decessi su 515 malati. L’Osservatorio lancia inquietanti dubbi anche sul grosso numero d’interventi alla tiroide, che interesserebbero il 70% dei reduci.

Partendo da queste considerazioni, è facile temere per la salute dei cittadini che vivono in prossimità delle Basi militari. Nel paese di Escalaplano molti bambini nascono con delle vistose e delimitanti malformazioni. Nella frazione di S. Giorgio (Salto di Quirra), c’è una percentuale altissima di tumori al sistema emolinfatico. Entrambi gli insediamenti, manco a farlo apposta, sono nei pressi della grande base militare di Perdasdefogu. Ritornando al caso della Base di Teulada, è accertato che questa è usata per le esercitazioni della NATO, e affittata ad eserciti stranieri affinché questi possano studiare al meglio le loro “strategie” militari. Che armi sono usate durante queste esercitazioni? Si sa con certezza che questi esperimenti non possono causare danni alla popolazione residente? Il tutto è coperto dal famoso e impenetrabile “segreto militare”, ma non può esserci nessun segreto, quando si parla della salute dei cittadini.

L’unica risposta che può essere data alle popolazioni, a mio avviso, è la seguente: prevenzione, tutela e forme più adeguate di risarcimento nel caso in cui si verifichino degli effetti collaterali, assistenza sanitaria alle vittime e dunque alle famiglie. Vi è la forte necessità d’avvalersi di consulenti indipendenti, e rimuovere definitivamente il segreto apposto su quelle aree in cui imperversa il codice militare. Inoltre, elemento anch’esso importante, è importante avere degli strumenti adeguati per poter valutare con maggior precisione i danni causati dall’uranio impoverito.


A.D.

La sinistra unita in Consiglio Regionale!



Rifondazione Comunista
Sinistra Democratica
Partito dei Comunisti Italiani
Federazione Regionale dei Verdi


Sinistra
Arcobaleno




La Sinistra conferma che è in corso la definizione di una proposta articolata - così come richiesta dal Presidente della Regione per accelerare il confronto - sugli strumenti e sulle politiche del lavoro e per l'occupazione da introdurre nella prossima legge finanziaria, da sostenere tramite l'intera manovra di bilancio annuale e pluriennale.
Le forze politiche della Sinistra e i Verdi valutano ad oggi ancora distante l'accordo necessario per concludere positivamente l'esame del Bilancio regionale con una convinta approvazione in aula.
Per questa ragione richiamano il Presidente e il Partito Democratico al rispetto dell'accordo, grazie al quale si è potuta approvare la manovra in Commissione, anche in via tecnica e in previsione di una elaborazione definitiva, soprattutto in materia di lavoro e occupazione, capace di rispondere alle istanze provenienti dalla società sarda, rappresentate anche da sindacati e impresa nel corso delle audizioni.

Sinistra e Verdi esprimono preoccupazione, per l'avvicinarsi della discussione in aula senza una proposta condivisa dall'intera maggioranza, che riguardi: formazione professionale, strumenti e politiche del lavoro, sistema integrativo regionale degli ammortizzatori sociali, progetti di inserimento e reinserimento dei lavoratori provenienti dalle situazioni acute di crisi occupazionale, e quanto altro necessario per il raggiungimento degli obiettivi quantitativi (tasso di occupazione) e qualitativi (sistema dei servizi per il lavoro, formativi e di orientamento) definiti dal Programma regionale di sviluppo e dal Dapef approvato in Commissione Bilancio.

Per il Partito della Rifondazione Comunista-S.E. - Sinistra Democratica - Partito dei Comunisti Italiani - Federazione Regionale dei Verdi

Michele Piras

Massimo Zedda

Tore Serra

Pino Zarbo

Presentazione romanzo "La terra dell'odio."


La Terra dell’odio, l’ultima fatica letteraria di Vincenzo D’Ascanio, è proprio un bel romanzo. Lo apri e parte il racconto per immagini, suggestioni probabilmente autobiografiche, ricordi che si miscelano alla fantasia, un gomitolo che si srotola pian piano, attraverso un percorso coerente e fluido.Sinceramente carico di amore per il proprio paese, mette a nudo quel legame forte ed indissolubile con la propria terra, le radici che diventano sempre più forti quanto più si è distanti dalle proprie origini.


Sullo sfondo di un racconto che non è, né vuole essere, politico o sociologico, vi è il nostro paese, i nostri paesi, la nostra realtà. Quel complesso, articolato, contradditorio ed affascinante intreccio che sono le nostre comunità. I microcosmi, non le realtà metropolitane talvolta omologanti e totalizzanti, ma il lento scorrere del tempo scandito dalla quotidianità, dai profumi e colori della vita reale ancora non intrappolata nella rete virtuale e alienante di internet.Da pubblico amministratore non posso fare a meno di notare che viene anche affrontato il tema della sicurezza. La bomba che irrompe e drammaticamente spezza il silenzio gioioso di una notte di festa, uno squarcio dolorosamente profondo nelle nostre coscienze.


L’esplosione di una bomba che ci riporta alla mente quanto è difficile e rischioso, talvolta, amministrare le nostre realtà.Da politico (mi spiace, ci ricasco sempre!) e da Sindaco non posso fare a meno di evidenziare che la difficoltà di amministrare i nostri paesi non discende dalla “paura”. La bomba non è solo quella che si fabbrica con la polvere da sparo. Le bombe sono anche le riprovevoli testimonianze di una “certa politica” miope e distruttiva che, perseguendo solo interessi particolari e “partito-lari”, impedisce alle nostre comunità di realizzare appieno le proprie potenzialità, di svilupparsi armoniosamente, di crescere camminando insieme.Ritorniamo al libro. Esso è un racconto generazionale.


Sono pagine, dunque, nelle quali non si legge semplicemente una storia individuale o di un gruppo di amici ma quella di una generazione e di una fase della vita. Mi hanno favorevolmente colpito le pagine dedicate alla crescita personale e collettiva che è quella di tutti i giovani di allora. La scoperta della vita, i primi incerti sentimenti, i tabù da infrangere, i luoghi comuni e i pregiudizi, la ritualità e le trasgressioni, l’estate come stagione-crocevia, le paure e i desideri, la musica e le letture, la famiglia e il bar, insomma le cose normali che si fanno a quell’età.Ma anche il “sogno” di un lavoro stabile, il dramma dell’emigrazione, la precarietà come tratto distintivo di una generazione che per la prima volta nel dopoguerra vivrà peggio dei propri genitori. Insomma un romanzo vero, si direbbe neo-neorealista. La vita mostrata nella sua complessa ed indecifrabile misteriosità ma anche nella sua più cruda e misera realtà.


Riguardare il proprio passato non significa solo riappropriarsi di emozioni e ancor meno rifugiarsi in artificiali voli nostalgici o puerili sentimentalismi ma significa coltivare il futuro. Avere il coraggio di raccontarlo, pur stemperandolo in un romanzo, significa donarlo anche agli altri.Vincenzo D’Ascanio è già bravo e crescerà ancora. Non gli mancano talento, coraggio, abnegazione, determinazione e passione. Non sono solito dare consigli ma gli suggerisco di seguire sempre se stesso, i suoi desideri, le sue aspirazioni e le sue ambizioni. In realtà credo che lo stia già facendo. Allora permettetemi di augurargli di realizzarli, se lo merita.

Jerzu, 15 Marzo 2007

Marcello Piroddi- Sindaco di Jerzu




Il romanzo "La terra dell'odio", di Vincenzo D'Ascanio, sarà presentato il 15 Marzo, alle ore 17, presso l'ex Vetreria di Pirri.