domenica 10 febbraio 2008

Diciamo un secco NO ai culti del consumismo


Considerando la società in cui viviamo, spesso poniamo ai margini delle problematiche che non sembrano riguardarci più, o forse non appartenerci. Per questa ragione, ma non solo, sposterei l’attenzione sulla questione del sistema culturale. Il sistema culturale è un qualcosa d’ampio e complesso. Del sistema culturale fanno parte i mezzi di comunicazione, i istituti educativi e religiosi, le associazioni, insomma, è una categoria molto ampia. Perché lo considero un problema? Semplice. Penso che la cultura, i valori, non siano più prodotti dalla società nel suo insieme, ma siano piuttosto proposti da una ristretto gruppo di persone, che finalizzano ed indirizzano i comportamenti umani per soddisfare principalmente le logiche del mercato. Insomma, questi valori sono funzionali al mantenimento e allo sviluppo dell’attuale sistema produttivo.

Nella produzione di valori, come detto, dobbiamo comprendere anche gli istituti religiosi, ma il discorso in questo caso è differente. I valori che provengono dalla religione, condivisibili o meno, sono il frutto di una produzione secolare, che si sono anche evoluti nel tempo anche seguendo pulsazioni sociali, ed irrazionali. I valori concepiti dal mercato non sono stati prodotti e adattati alla società, ma sono stai imposti alla società stessa attraverso i formidabili mezzi di comunicazione, che oggi hanno un peso incredibile.
Quali sono le fonti produttive di questa cultura? Naturalmente, eviterei una ragionamento comune che ho talvolta udito nei Circoli culturali, secondo cui questi valori sarebbero prodotti niente poco di meno che dalle fantomatiche multinazionali, riunite in consessi di kafkiana memoria. Il positivismo, o l’utilitarismo, hanno trovato il loro sviluppo in anni lontani dai nostri, tuttavia, questi stessi movimenti culturali sono oggi portati alla loro estremizzazione dal capitalismo, che ha introdotto nuovi costumi per giustificare e rendere più forte il proprio sistema di pensiero. Le grandi multinazionali hanno sviluppato e approfondito tecniche di comunicazione che hanno come fine quello della vendita del proprio prodotto, tecniche che si legano non soltanto alla sociologia, ma alla stessa psicologia.

Oggi il marketing ha avuto uno sviluppo notevole, e come ben sappiamo le potenti aziende della globalizzazione sono più disposte a investire sul marchio del proprio prodotto, piuttosto che sul prodotto stesso. L’elemento patologico è che il marketing, servendosi della pubblicità e sfruttando sapientemente i mezzi di comunicazione, riesce a creare degli particolari modelli di vita, a cui la società si deve adeguare. In particolare, i giovani sono continuamente sollecitati da impulsi comunicativi che bene o male li influenzano, in tutti gli aspetti della loro vita. Per fare un esempio, pensiamo a una delle diverse orribili pubblicità che compaiono con regolarità sul piccolo schermo. I prodotti reclamizzati sono molteplici, ma tutti hanno un unico denominatore: la proposizione del modello dell’uomo vincente, la proposizione del culto della competizione.

Ragioniamo sulla pubblicità degli indumenti sportivi (Nike, Adidas, etc…). Oggi i personaggi impiegati sono sempre dei campioni straordinari dello sport, oppure, quando non sono dei campioni, sono utilizzati uomini e donne dal fisico eccezionalmente possente (e dallo sguardo fastidiosamente deciso). Io sono sconcertato dalla pubblicità della Barilla, dove il manager partito per un Paese lontano è atteso con trepidazione dalla mogliettina, ovviamente in una casa lussuosissima. Per non parlare della pubblicità delle automobili, dei computer, dei televisori e degli stereo. La pubblicità ha estremizzato così tanto le situazioni, che anche farsi la barba è diventa un’impresa, azione compiuta da uomini profondamente decisi e naturalmente belli e vincenti (sul culto dell’esteriorità, poi, si potrebbe discutere per ore…)

Sul banco dei condannati, tuttavia, non posso mettere soltanto la pubblicità (che, comunque, anche se in maniera discutibile assolve alla sua funzione). L’arte stessa sta scadendo per appoggiare i valori di questo sistema di produzione. Il cinema, strumento fondamentale di cultura e comunicazione, si sta appropriando di questi primitivi meccanismi, e il culto dell’uomo vincente (e quindi della competitività), sta assumendo proporzioni sempre più angoscianti. In ogni campo espressivo o artistico il modello sta dilagando, anche se ovviamente esistono delle fortunate eccezioni (i “veri” artisti non cedono ai compromessi). I personaggi (anche dei telefilm o negli odiosi teleromanzi) sono sempre i medesimi: ricchi, forti, qualche volta annoiati, pronti a tutto etc… La sofferenza umana è quasi scomparsa, dei veri problemi non si da rappresentazione, non sono analizzati, ogni cosa è raffigurata da un’assurda patina di falsità. La realtà non è considerata, non per cercare un sacrosanto rifugio nella fantasia, ma piuttosto per rifilarci una realtà falsa e inesistente, e questo, a mio avviso, non avviene per caso…

Il tutto farebbe anche ridere, peccato però che non tutti hanno la voglia (o il tempo) di mettere in funzione le proprie capacità di ragionamento. I modelli proposti sono ormai considerati come acquisiti ed inviolabili, e i giovani sono lo strato di popolazione più soggetta a questa somministrazione di competitività. Parlando del nostro futuro con i miei coetanei, noto un dato che mi fa pensare: tutti hanno una paura folle di non poter possedere determinate “cose”, e alcuni hanno come principale desiderio quello di comprarsi una bellissima macchina, avere una straordinaria casa, dotarsi di un fisico eccellente, munirsi di strumenti tecnologici, neanche lavorassero per i servizi segreti. Ai giovani è stato detto che essi non devono collaborare, perché il realtà devono prevaricare. Ai giovani è detto che devono essere dei vincenti, ed essere vincenti significa possedere la materia. Il vincente non è il coraggioso, l’altruista o colui pronto a sacrificarsi per non ripudiare i propri ideali. Il vincente è ben altro, ha sempre i capelli a posto e il Rolex, ha sempre la macchina più bella, così tutto ciò che ci accade intorno e solo lo sfondo della nostra esistenza, proprio come in un teleromanzo.
Questo stato di cose, ovviamente, produce sofferenza. Perché chi non riesce, o non vuole, essere un vincente (secondo il modello tratteggiato dalla cultura dominante), si sentirà diverso, e non sempre nel sentirsi diversi si sta bene. La povertà, prima considerata un valore, oggi è una vergogna, e il giovane sotto gli “standards” sta male, anche se ha il necessario, e talvolta anche di più. La competitività strozza chi non ha voglia di competere, non tanto perché vile, ma piuttosto perché umano, e non ha intenzione di sprecare la propria vita trasformandosi nel lupo dei suoi simili.

Naturalmente non tutti i giovani si fanno infarcire da queste idiozie, altrimenti faremo tutti bene a pensare seriamente al suicidio. Ci sono giovani che conoscono la verità, ma questi stessi giovani non devono cullarsi nel compiacimento della propria intelligenza, perché devono essere capaci di riportare a galla la cultura, la vera cultura. Esistono anche degli importanti pezzi di società stanchi di questo squallore mass mediatico, che tuttavia tendono a stare ai margini, ad estraniarsi dal contesto vissuto per vivere nel pensiero del tutto è ormai perduto. Questo è un errore, perché e un dovere proporre la propria visione delle cose, e lottare per la società che si vorrebbe. Tuttavia, non si può pensare che questo resti un compito soltanto dei giovani. La politica ha un ruolo importante nel fronteggiare questo regresso culturale. Devono essere finanziati i luoghi di cultura, la produzione dell’arte, il godimento dell’arte. E’ compito fondamentale della politica finanziare la stessa cultura, facendo i dovuti distinguo, e contrastare l’imbarbarimento che si sta sviluppando e radicando con velocità esponenziale.

Marco Serra.

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