domenica 10 febbraio 2008

Università: riprendiamoci spazi e didattica!


Quando dal paese giunsi all’Università entrai in contatto con una situazione ben diversa da quella attuale. Gli studenti collaboravano e discutevano alle assemblee, alle lezioni ci si andava, ma non c’era l’inquietudine d’oggi determinate dalla disoccupazione, dalla precarietà e da questa crisi economica che, in Sardegna come altrove, sta assumendo proporzioni preoccupanti. Tutti giungevano dalle loro terre d’origine con giuste aspettative, con speranza, oltre che con legittima curiosità: l’Università era davvero il trampolino di lancio verso il futuro. Nelle bacheche delle facoltà echeggiavano agguerriti volantini delle associazioni e dei collettivi studenteschi, delle più diverse e disparate sensibilità…



Eravamo sul finire degli anni novanta, quindi sono trascorsi appena dieci anni!

Eppure molto è cambiato, e forse perduto, per sempre. Gli studenti, salvo qualche rara eccezione, sono apatici, disinteressati all’attività politica, e soprattutto non s’interessano alla difesa dei loro diritti. Molti vanno a lezione coi loro libri sottobraccio, visibilmente preoccupati per il ritardo alla lezione di diritto privato, o di meccanica applicata a non so che cosa.
“Ti posso dare questo volantino?” Gli dici. Loro ti guardano come se stessero ripiombando sulla terra, persi in chissà quale congettura, e se va bene ti prendono il volantino per farti un piacere. Il 40% arriva a leggere le prime tre righe, ma non appena capisce di cosa si tratta smette di leggerlo. Un altro 40% non lo legge nemmeno, lo butta direttamente. Nel restante 20% potrai trovare la persona che decide di venire alla riunione, oppure al sit - in dinanzi al rettorato, etc… (si, potrai trovare, perché il 20% è solo una base immaginaria, ed ottimistica).

Considerando l’atteggiamento di questi studenti, la situazione sembrerebbe abbastanza rosea. Verrebbe da pensare, certamente a torto, che le lotte del passato hanno prodotto i loro effetti, e lo studente vive in una discreta condizione per cui non ha più nulla da chiedere. Peccato che non sia affatto così, tutt’altro. Continuano ad aumentare le tasse universitarie, l’amministrazione è una macchina infernale, i baroni dominano incontrastati dall’alto delle loro cattedre, il Magnifico Rettore è ormai una figura quasi metafisica che può permettersi qualsiasi cosa, i programmi sono vilmente superati, tutto il sistema dell’istruzione s’è ormai trasformato a fabbrica di produzione d’automi, da inserire nel vasto mercato del consumismo globalizzato. Altro che, gli studenti hanno poco da ridere. Perché, allora, si comportano in questo modo?

In primo luogo, ritengo che tra gli studenti stia avvenendo ciò che è avvenuto tra i lavoratori. Gli universitari hanno perso lo stimolo alla rivendicazione, anche in relazione ad una inquietudine diffusa delle loro condizioni di vita. Qualsiasi studente si rende oramai conto che il suo inserimento nel mercato del lavoro sarà difficoltoso, per questo cerca d’accelerare i tempi della propria laurea anche a condizione di non protestare più per il peggioramento della situazione generale, pensando che se si laureerà prima, sarà magari avvantaggiato quando arriverà il momento della sua assunzione.
Nel mondo della precarietà questa è la norma: il precario non tende più a manifestare il malcontento per la condizione generale, perché preoccupato dalla stabilità del “proprio” posto di lavoro. In poche parole, nessuno cerca più i benefici per la specifica categoria d’appartenenza, perché ognuno cerca il vantaggio unicamente, e solamente, per se stesso. Il disagio e la preoccupazione che sono insiti nella società, hanno definito un allentamento dei vincoli di solidarietà tra le persone, che siano studenti oppure lavoratori. Tuttavia, l’allentamento del vincolo non è causato solo dalle tensioni sociali: il vincolo di solidarietà è spezzato anche dalla competitività diffusa, dai miti del successo e della ricchezza, che i mezzi d’informazione propongono senza soluzione di continuità. Su questo, almeno per il momento, non intendo soffermarmi.

Le recenti riforme universitarie hanno accentuato il problema. Il sistema delle lezioni obbligatorie, sommate alle ore di studio, hanno determinato una difficoltà tangibile, per cui ogni studente è quasi impossibilitato ad interessarsi di qualsiasi cosa che non sia l’oggetto del proprio studio. Chi ha voluto l’aumento delle tasse per gli studenti fuoricorso, ha voluto mettere un ulteriore freno a qualsiasi velleità politica (che può essere anche artistica, o di qualsiasi altro tipo) dello studente. La vita di un universitario è diventata una corsa ad ostacoli verso il prossimo esame, riflettendo sul fatto che ormai il fuoricorso è trattato quasi come una bestia velenosa. Anche il questo caso, il paragone col lavoratore precario è obbligatorio. Entrambi sono costretti ad una paradossale corsa ad ostacoli: il primo per restare “in corso”, il secondo per avere il proprio contratto rinnovato. Va da sé che sarà esclusa ogni attività extrascolastica, soprattutto nel caso dei figli delle famiglie meno abbienti, che non potranno permettersi nulla che vada al di là di ciò che devono.

Fatte queste considerazioni, ritengo che sia diritto dello studente riappropriarsi del proprio tempo, affinché possa ritagliarsi spazi di socialità che in questi ultimi anni ha perso. Per spazi di socialità intendo molteplici attività, che comunque devono restare nella discrezionale scelta dello studente. Un universitario (come un lavoratore) ha diritto ad una vita realmente sociale, che vada al di là da un impegno didattico sempre incalzante e che mina seriamente le facoltà d’apprendimento…
Oltre alle attività extradidattiche, tuttavia, dovrebbero essere cambiati alla radice anche i metodi d’insegnamento. Un esame non dovrebbe avere come base il trinomio professore – libro – studente. Per una maggiore comprensione della materia, dovrebbero essere attivati dei percorsi formativi che vadano al di là delle semplici e preistoriche lezioni. Gli studenti dovrebbero essere coinvolti in dibattiti, proiezioni, oppure diventare parte attiva della stessa didattica, attraverso contributi ed approfondimenti. Per carità, al bando le visite alla Corte dei Conti, o roba simile: gli universitari dovrebbero rifiutarsi con tutti i mezzi di sottoporsi a simili ed umilianti percorsi!
Oltre a ciò, è urgente che all’interno dell’Università nascano nuovi collettivi studenteschi, o nuove associazioni, che ridiano nuova linfa ad un ambiente che pare asfittico. I collettivi (o come li si vuole chiamare) devono portare nuovamente la politica all’interno delle Università: essi devono essere capaci di proporre ed attivarsi non soltanto quando ci sono le elezioni, oppure quando esplodono i grossi problemi, ma dovrebbero essere in grado d’aggregare gli studenti in tutti i periodi dell’anno, per strapparli all’alienante sistema delle lezioni e del superamento degli esami. Obbiettivo fondamentale di queste aggregazioni deve essere quello di riformare il sentimento di solidarietà tra gli studenti, con l’obbiettivo della rivendicazione dei propri diritti.

Per fare questo bisogna individuare i problemi degli universitari, precisare le soluzioni, e unirli con le giuste motivazioni, con l’ambizione di raggiungere traguardi comuni. Per quanto sia importante il lavoro dei collettivi presenti, dobbiamo essere capaci di costituire altri collettivi “di sinistra” negli altri atenei, con l’obbiettivo di riprenderci anche i giusti spazi di socialità. Gli spazi sociali saranno indispensabili per costruire dei laboratori di politica universitaria, per formare dei gruppi di lavoro sulla didattica, per discutere la stessa didattica. Le aule occupate potrebbero diventare, per dirla in breve, dei laboratori sperimentali in cui si sviluppano politiche e didattiche alternative rispetto alle antiquate metodiche, che in questo momento prevalgono nei programmi universitari.

Vincenzo M. D’Ascanio

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