giovedì 26 aprile 2007

Movimenti, Attualità, Aprile 2007, pag. 3


Le contraddizioni cagliaritane

La povertà nelle grandi città è un qualcosa di tangibile, un qualcosa che l’occhio non può sopportare, un qualcosa che ferisce il nostro essere “uomini”. Quando arrivai a Cagliari per cominciare gli studi universitari, avevo soltanto un’idea confusa di cosa mai fosse la povertà. Questo perché nel paese il povero, pur vivendo in una condizione di miseria, vive entro una peculiare rete di rapporti umani e sociali che gli permettono di vivere in un margine di sussistenza e dignità. Nel paese non si è mai soli, c’è sempre un amico o un parente su cui contare… Col tempo imparai che nelle città ciò non esiste, e il povero troppo spesso oltre ad essere povero, è anche solo ed emarginato.
Cagliari è una città in cui il moderno convive con l’antico, in cui le Torri Pisane e le possenti Chiese medievali s’elevano tra le moderne realizzazioni dell’arte contemporanea. Cagliari, tuttavia, è anche una città divisa da impalpabili ed insormontabili barriere di sartriana memoria: impalpabili perché non si possono né toccare, né vedere, insormontabili perché sei profondamente cosciente di quanto la loro presenza vada oltre lo stesso astratto concetto del tempo.
Queste barriere dividono la città in quartieri poveri e in quartieri ricchi, in quartieri dove il lusso oltre che condizione si trasforma anche in status simbol. Altri quartieri hanno invece un ben latro status: quello della sussistenza, quello della lotta primordiale contro il bisogno materiale. Una lotta che ha soltanto un obbiettivo: quello del raggiungimento di una legittima soglia di sussistenza. Dico legittima non a caso, perché l’articolo terzo della nostra Costituzione parla chiaro: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua e di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese.”
Passeggiando per le vie cagliaritane, sembra che questa Repubblica, così brava nelle dichiarazioni di principio, non abbia poi fatto molto. Te ne accorgi dinanzi ai grandi palazzoni alveare, in cui famiglie numerose sono stipate in miseri appartamenti, e i giovani disoccupati tirano a campare con espedienti di ogni genere. Te ne accorgi parlando con gli anziani e gli invalidi, che lamentano la mancanza di una qualsiasi forma d’assistenza. Te ne accorgi in Viale Elmas, quando nella semioscurità scorgi le immigrate che vendono il proprio corpo per pochi euro. Lo percepisci in quei quartieri dove non esistono servizi, e neanche un supermercato. In quei momenti, sentendo quelle parole, o vedendo quegli spettacoli di miseria e desolazione, ti chiedi: dov’è questa Repubblica che si riempie la bocca di così belle parole?
Nessuno potrà affermare che nella nostra società non esistano disuguaglianze sociali, e nessuno non può neanche lontanamente immaginare che queste non si perpetueranno nel tempo. Perché nascere a S. Michele non è come nascere in Via Sonnino, e tutti sappiamo che un ragazzo che nasce in due realtà così diverse avrà un vissuto differente, oltre che un probabile (anche se non scontato) destino.
Se la nostra Repubblica non fa molto per attenuare la disparità di condizioni tra questi due ragazzi, non si può dire che l’amministrazione cagliaritana faccia di meglio. I soldi per il lavoro sono spesi per ripavimentare le piazzette, oppure per appaltare delle assurde opere pubbliche che andranno come consuetudine a rifocillare l’amico dell’amico. A ciò si aggiunge la mancanza di lavoro frutto di queste scelte drammaticamente sbagliate, mancanza di lavoro che sommata alla precarietà di questi tempi crea disagio, disperazione, rabbia cieca e frustrazione. Con questi presupposti, la situazione di disagio creata dalla miseria può trovare come aberrante conseguenza la violenza fine a se stessa. Gli episodi di teppismo accaduti nei quartieri cagliaritani, in questo senso, sono del tutto simili a quelli delle Banlieu parigine, consapevoli delle dovute dimensioni. Il disagio, quando non trova delle risposte, si trasforma in risposta brutale, senza neanche lo spiraglio ideologico della rivendicazione sociale.
Se non si vuole che la situazione degeneri, le istituzioni devono trovare una concreta risposta alle tante difficoltà presenti nel tessuto sociale. In primo luogo è indispensabile dare un lavoro alle persone, perché come ci ha insegnato il buon Carlo Marx, il lavoro è il mezzo che contribuisce alla realizzazione della persona. In secondo luogo, devono essere migliorate le condizioni di vivibilità dei quartieri disagiati, perché l’ambiente in cui viviamo influisce pesantemente sul nostro modo di vivere e di pensare. Al bando le colate di cemento e d’asfalto, al bando i grandi palazzoni alveare, al bando l’asfalto che inghiotte la cultura e il poco verde rimasto. I quartieri come Is Mirrionis hanno bisogno di luoghi in cui si sviluppi l’integrazione sociale, come i centri sociali organizzati non per foraggiare le cooperative, ma per dare alla cittadinanza momenti d’aggregazione.
In terzo luogo, sono necessari degli ammortizzatori che ci riscattino dall’incubo della povertà. Per ammortizzatori intendo dei salari sociali che garantiscano una dignitosa soglia di sussistenza, che scongiurino lo sfruttamento, che scaccino finalmente la paura del futuro e della miseria.
Questi ovviamente sono soltanto dei possibili correttivi, delle misure amministrative per attutire il disagio. Un intervento strutturale dovrà tuttavia essere fatto anche sui sistemi d’informazione, sulla cultura e sugli stessi istituti educativi. Devono essere definitivamente cancellati gli esempi paventati in questi anni: il lusso da esibire a tutti i costi, i modelli inarrivabili, il rifiuto del diverso… In definiva, è indispensabile un intervento congiunto degli operatori sociali, dei movimenti e delle istituzioni per esorcizzare i pericolosi effetti del disagio sociale. E’ giunto il momento di dare attuazione al famoso articolo 3 della Costituzione.

Vincenzo M. D’Ascanio

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